Sette dirigenti su dieci indicano il lavoro di squadra come la principale leva per la competitività. Quali sono le caratteristiche del team working di oggi? Gerarchia debole, delega verso il basso e capacità di autogestione. Ma la logica dei moschettieri non risulta granché in linea con la mentalità italiana.
Come si diventa più competitivi? Con il lavoro di squadra.
Secondo il Rapporto della competitività dei settori produttivi stilato dall’Istat, uno degli effetti positivi della crisi è quello di aver spinto manager e imprenditori delle aziende in difficoltà a organizzare il lavoro interno per team.
Un concetto ribadito anche da una recente indagine di Manageritalia su oltre mille dirigenti: sette su dieci indicano il lavoro di squadra come una delle azioni concrete e più efficaci per accrescere la competitività in azienda.
Ma qual è il modello di team working che è venuto fuori dopo lo scossone della crisi? Sorpresa: è quello usato in uno dei settori più tradizionali dell’industria: l’automobile.
Qui, infatti, l’organizzazione per gruppi non è una novità, anzi, è ben formalizzata e ha contribuito negli anno scorsi a imprimere una svolta importante.
«Oggi in Fiat, Volkswagen o Mercedes tutto il lavoro è organizzato per team autonomi», ci spiega Luigi Campagna, docente di sistemi organizzativi al Politecnico di Milano, «con sei persone guidate da un coordinatore, ma con una gerarchia debole e una delega verso il basso.
Si chiama “world class manufacturing”, l’ha sperimentato per prima Toyota ed è un modello che porta grandi risultati: si riducono i tempi morti recuperando produttività, si stimola il contributo soggettivo e la nascita di nuove idee».
D’accordo, forse funziona quando si deve fare un’automobile, ma andrebbe bene anche nella moda o nel food? «Certo», continua Campagna, «perché il modello automotive si può esportare ed è già stato fatto con successo: nei call center per esempio, oppure in realtà come la svizzera Endress Hauser, dove è il team e non il capo che gestisce le assenze, i permessi e gli ingressi.
Oppure in Luxottica, dove il lavoro di squadra è ormai considerato un fattore produttivo al pari degli altri e non solo un nice to have».
NUOVI MODELLI
Insomma, per competere e cavalcare la ripresa non è necessario cercare molto lontano, basta fare come quelle aziende che già hanno adottato una soluzione organizzativa competitiva basata sul lavoro di gruppo, e dove la struttura rigidamente gerarchica si è appiattita cedendo il posto ad una organizzazione per team focalizzati sugli obiettivi.
Alcuni esempi in ordine sparso: in Contactlab, azienda di software con 161 addetti, si lavora in gruppi di sei persone con competenze diverse, ma tutti focalizzati di volta in volta sul nuovo progetto da seguire.
In Ikea sono al lavoro gruppi di impiegati provenienti da settori differenti – il retail assieme ai colleghi della logistica, della distribuzione o degli acquisti – in modo che dall’incontro di professionalità diverse nascano decisioni migliori.
«Del lavoro in team si parla da sempre», interviene Laura Quintarelli, amministratore delegato di Fedro, società di training e coaching, «ma affinché abbia un riscontro nella realtà occorre che le aziende si strutturino per facilitarlo e premiarlo.
Sempre più spesso i programmi di change management sono improntati alla riorganizzazione dell’azienda intesa come un organismo unico, superando i confini di business unit e dipartimenti e concentrandosi su un concetto fondamentale: il cliente esterno è cliente dell’azienda nella sua interezza, non di un solo dipartimento.
Riorganizzando l’impresa secondo questo modello, si ottengono vari risultati: i dipendenti sono stimolati e aiutati a scambiarsi informazioni, cooperare per il cliente, raggiungere gli obiettivi di team e non solo quelli del singoli».
Tutto facile? Non proprio.
In molte società, anche le più grandi, c’è una forte resistenza a innovare, mentre la piccola e media impresa italiana soffre di un altro male: è troppo gerarchizzata.
«Per questo occorre una struttura organizzativa che forzi le persone al lavoro in team», è la soluzione proposta da Quintarelli, «in modo da superare le naturali resistenze iniziali».
OLTRE LE RESISTENZE
Ecco il punto allora: l’organizzazione del lavoro in team, fino a oggi considerata una delle opzioni che consentono alle imprese di essere vincenti, risulta essere un fattore fondamentale, una condizione senza la quale non si può verificare alcuna crescita della competitività.
Una relazione ad alta produttività insomma. Sia chiaro: si tratta di una rivoluzione nel modo in cui tradizionalmente si vive e lavora in Italia.
Anche per un fattore culturale: da noi l’individualismo è, nel bene e nel male, un carattere dominante.
«L’Italia è un Paese caratterizzato da elevata competizione, dove l’enfasi è posta sul lavoro individuale rispetto al lavoro di gruppo, sulle differenze di status e di potere e sulla gestione affettiva, e non oggettiva, delle relazioni», dice Stefano Verza, psicologo del lavoro, citando i monumentali scritti dell’antropologo Geert Hofstede e del teorico delle organizzazioni Fons Trompenaars.
«L’individualismo all’italiana è correlato con la ricerca di indipendenza e di potere personale. Peccato che invece, quando si lavora in azienda assieme ad altri, indipendenza e potere personale non siano gli atteggiamenti vincenti.
Il nodo cruciale, infatti, è l’abilità di mantenere il giusto equilibrio tra il bisogno di indipendenza e la condivisione, saper individuare il proprio spazio all’interno di una rete di dare e ricevere, nella quale il riconoscimento personale non può essere separato dall’ottenimento del bene comune».
La domanda che un’organizzazione deve porsi, allora, è questa: quali risorse sto dando ai miei uomini perché possano contribuire al bene comune? Se lo chiedono anche il Milan o la Juventus, la nazionale di volley o di rugby.
Perché il teamworking è forse uno di quei concetti che più di altri avvicina la vita in azienda allo sport. «Gli allenatori sanno bene che una squadra in cui tutti si vogliono bene e fanno le cose con altruismo non esiste.
La motivazione a giocare è forte», continua Verza, «se l’obiettivo è considerato raggiungibile e se, attraverso i risultati del team, ciascuno può raggiungere i propri obiettivi personali.
Nello sport funziona, ma in azienda? Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo riconosciuto il talento di un nostro collega e ci siamo congratulati con lui perché ha uno stipendio più alto?».
Come dire: non sono le differenze tra colleghi a impedire il gioco di squadra, ma l’incapacità di riconoscerle e apprezzarle.
5 Mosse per creare un tema vincente
- Chiarire gli obiettivi. Quando si parla di target di squadra, non contano solo gli aspetti quantitativi (cosa raggiungere), ma anche quelli qualitativi: come voglio raggiungerli?
- Definire le regole del gioco. Per mantenere un buon clima interno e stimolare la collaborazione fra i membri di una squadra, bisogna stabilire le regole, soprattutto quelle relazionali e comportamentali.
- Indicare i livelli di responsabilità. Chiarire fin da subito, e senza ambiguità, chi è il responsabile di ciascuna fase del progetto e chi invece collabora semplicemente. Serve per semplificare il lavoro che verrà.
- Concordare un programma di verifica. Date, scadenze, follow up, riunioni pianificate in anticipo e ben strutturate: solo così si mantiene sempre il focus sui risultati.
- Stimolare la responsabilità del singolo verso il team e del team verso il resto dell’azienda. Il contributo del singolo dovrebbe essere noto solo all’interno del team per rafforzare l’unità, mentre il risultato finale va attribuito al team come insieme.
Tratto da Businesspeople.it